Umberto Eco: sbarazzati di quel cellulare!

Umberto Eco: sbarazzati di quel cellulare!

Tempo fa, mentre parlavo davanti all’Accademia di Spagna a Roma, una signora che aggiustava la telecamera mi colpì in faccia con una luce accecante e non mi faceva leggere gli appunti.

Sono tornato da lui molto ferito, come è successo a me con altri fotografi maleducati, dicendogli che le regole della divisione del lavoro ci insegnano che quando lavoro gli altri dovrebbero lasciare il lavoro.

E la signora ha spento la telecamera, ma ha ottenuto lo sguardo dell’uomo che le si mette al collo invano.

A San Leo, proprio la scorsa settimana, mentre si annunciava una simpaticissima iniziativa comunale per rivalutare i paesaggi campestri nei dipinti di Piero della Francesca, tre persone mi accecavano con i loro flash, quindi ho dovuto ricordare le regole della buona educazione.

Sembrava che in entrambi i casi i paraocchi non fossero il tipo da entrare nel Grande Fratello, ma, molto probabilmente, persone colte che vengono volentieri a tali attività per portare avanti discussioni in un campo della conoscenza.

È chiaro però che la sindrome dell’occhio elettronico li ha abbassati al di sotto del livello a cui avrebbero potuto aspirare, perché, praticamente disinteressati a quanto si diceva, volevano solo registrare l’evento, anche se poi è stato messo su YouTube.

Non volevano capire quello che veniva detto, perché quello che avrebbero potuto cogliere attraverso i sensi, cercavano solo di immagazzinarlo nella memoria del cellulare.

L’onnipresenza dell’occhio meccanico al posto del cervello mi sembra che abbia alterato mentalmente anche persone altrimenti civilizzate. Escono dall’evento a cui prendono parte, portando con sé un’immagine; ma senza capire cosa è stato detto e cosa è stato fatto (e li avrei capiti se fossi un ballerino nudista).

Come immagino, mentre vagano per il mondo fotografando ciò che vedono i loro occhi, sono condannati a dimenticare il giorno dopo ciò che potevano vedere il giorno prima.

In più occasioni ho raccontato quello che mi è successo in Francia nel 1960; quando dopo aver fotografato come preso da una miriade di cattedrali, ho finalmente smesso di fotografare.

Perché quando sono tornato a casa non riuscivo a ricordare cosa avevo visto, mentre dal viaggio mi sono rimaste solo poche foto senza valore. Pertanto, ho scartato la fotocamera e nei viaggi successivi ho cercato solo di registrare ciò che vedevo nella mia mente.

Come promemoria per dopo, più per gli altri che per me stesso, compra delle ottime cartoline.

Una volta, quando avevo solo undici anni, rimasi colpito dall’insolito trambusto nell’anello cittadino, dove fui accolto da una folla di persone.

Ho visto da lontano come il camion si era schiantato contro un carro guidato da un abitante del villaggio; aveva con sé anche sua moglie.

La donna giaceva a terra con il cranio screpolato e distesa su un mucchio di sangue e materiale cerebrale, mentre il marito la stringeva al petto urlando disperato (nei miei ricordi ancora terrificanti, la scena sbiadiva come una torta con pana alla fragola , calpestato dai piedi).

Terrorizzato non ho volato oltre, non solo perché era la prima volta (per fortuna, anche l’ultima) che vedevo cervelli sparsi sull’asfalto; ma perché per la prima volta mi trovavo di fronte alla morte.

E di fronte al dolore, la disperazione. E se avessi un cellulare con fotocamera, come fanno tutti i bambini oggi?

Forse avrei registrato la scena per dire agli amici che c’ero, poi forse avrei postato questa fortuna su YouTube per accontentare gli altri followers di “schadenfreude”, altrimenti, del gas che si sente dal dolore dell’altro.

Poi, per quanto ne so, registrando altre disgrazie, il dolore dell’altro non mi impressionerebbe più.

Al contrario, ho registrato l’evento nella mia memoria e quelle immagini anche adesso dopo settant’anni non lasciano la mia mente e continuano ad educarmi: sì, mi fanno sentire nell’anima il dolore di un altro.

Non so se i ragazzi di oggi hanno ancora questa possibilità di sentirsi grandi. Oggi questa razza adulta è persa per sempre.

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